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Immagine del redattoreAvv. Emanuele Spina

Arriva la Licenza di Importazione!

Il 29 giugno 2025 segnerà la fine del mercato europeo dell’arte?

Leggendo il contenuto del Regolamento UE 2019/880 che, per l’appunto, entrerà in vigore a fine giugno 2025 il dubbio potrebbe anche sorgere.

Si tratta del regolamento che l’Unione Europea ha approvato ormai alcuni anni fa allo scopo di contrastare il traffico illecito di beni culturali, prevalentemente in funzione di prevenzione del finanziamento del terrorismo e del riciclaggio di denaro.

Il regolamento introduce, per chi intenda importare un bene culturale che abbia oltre 200 anni ed un valore di almeno € 18.000, di dimostrare la legittima provenienza del bene dal paese di origine oppure, in alcuni casi, dal paese in cui sia stato presente stabilmebte per almeno 5 anni.


Vediamo più nello specifico cosa viene disposto.


In primo luogo è opportuno evidenziare che il regolamento in questione non si applica ai beni culturali creati o scoperti all’interno dell’Unione Europea, ma solo a quelli che hanno una provenienza extra UE.

Dunque, se un bene si trova al di fuori dell’Unione, ma è originario di uno dei 27 paesi europei, la normativa in questione non troverà applicazione, trattandosi di un bene reintrodotto nella UE.


Il regolamento riguarda in generale tutti i beni culturali, ma concentra la propria attenzione specificatamente sui beni archeologici, specie se provenienti da complessi monumentali, in quanto maggiormente esposti a saccheggio e distruzione (chi non ha ancora negli occhi le drammatiche scene delle statue del Buddha prese a cannonate dai talebani a Bamiyan, in Afghanistan?) e sulle icone liturgiche, in quanto anch’esse di possibile provenienza da complessi monumentali saccheggiati (si pensi alla protezione internazionale che si è dovuta accordare ai monasteri ortodossi in Kosovo, guardati dai nostri militari, nell’ambito della missione KFOR, fino al 2013).


In breve, qualora si intenda importare in modo definitivo nel territorio dell’Unione un bene culturale (che il regolamento delinea in tre apposite tabelle) occorre dotarsi di una licenza di importazione, oppure di una valida dichiarazione dell’importatore, che attesti la legittimità dell’esportazione dal paese di creazione o scoperta del bene stesso.


Ciò non è richiesto nel caso in cui il bene sia destinato ad essere esposto in una fiera d’arte commerciale (quali TEFAF o la nostrana BIAF); in questo caso, sarà sufficiente introdurre il bene in regime doganale di temporanea importazione, provvedendo, contestualmente, a redigere una dichiarazione dell’importatore.

Una volta che il bene dovesse essere definitivamente importato (ad esempio perché venduto ad un acquirente europeo), dovrà essere acquisita la licenza di importazione, laddove necessario.


Vediamo, dunque, in cosa consistono le due tipologie di documenti richiesti


La licenza di importazione (articolo 4)


Tale documento è necessario per i beni culturali previsti nella tabella B:

  • prodotti di scavi archeologici (regolari o clandestini) e di scoperte archeologiche terrestri o subacquee

  • elementi provenienti dallo smembramento di monumenti artistici o storici o di siti archeologici (ivi incluse le icone liturgiche e le statue, anche a sé stanti)

La licenza è rilasciata dalle autorità dello stato membro dove per la prima volta si introduce il bene nel territorio dell’Unione ed è valida in tutta l’UE.

Si ottiene presentando una domanda su appositi moduli unificati ed allegando qualsiasi documentazione che possa comprovare la legittima esportazione dal paese in cui il bene è stato creato o scoperto, oppure l’assenza, in tale paese, di disposizioni legislative che ne regolamentino l’esportazione.


Questa disposizione mi pare porre già di per sé una nutrita serie di problematiche applicative, la prima delle quali attiene all’esistenza stessa di documentazione afferente i passaggi da uno Stato ad un altro per beni risalenti ad almeno due secoli prima.



Proprio quest’ultima fattispecie mi pare alquanto problematica e mi ricorda la storia di quella gentile fanciulla inglese, che, in tempi imprecisati, si era messa in testa di sposarsi in Italia ed a cui il solerte funzionario dell’anagrafe aveva chiesto un certificato attestante il suo stato libero in patria. Costei, al fine di ottenere l’attestazione di insussistenza di precedenti matrimoni, si dovette rivolgere alla propria amministrazione cittadina, che, trovandosi in difficoltà con tale inusuale richiesta, consultò direttamente il ministero a Londra.

Dopo qualche tempo, la giovane inglese ricevette una missiva dal ministro in persona, contenente, all’incirca, queste parole: “Gentile signorina, con rammarico debbo comunicarLe che il Governo di Sua Maestà Britannica non può attestare l’inesistenza di atti da Lei mai compiuti”.

Pare, così si narra, che la lettera sia stata considerata comunque idonea allo scopo e che la giovane inglese sia, dunque, riuscita a convolare a giuste nozze.

Dubito seriamente della veridicità storica di quanto vi ho appena narrato; ciò non toglie che non sia pensabile, fuor di metafora, che ogni singolo ministro della cultura di ogni singolo Stato privo di legislazione in materia di circolazione internazionale di beni culturali possa essere impegnato, alla bisogna, da cotanta attività epistolare per spiegare ai nostri solerti funzionari doganali come sia impossibile dimostrare l’inesistenza di ciò che non è (non a caso i giuristi definiscono tale prova come probatio diabolica).

Dunque, quale documentazione poter offrire: leggendo le linee guida rilasciate da CINOA, sembrerebbe che una dichiarazione in tal senso potrebbe essere sufficiente.

Dubito, tuttavia, che nella prassi, quantomeno italiana, si ingeneri una tale facilità di attestazione. Più probabilmente, sarà richiesta una autocertificazione che, come noto, comporta effetti penali per il dichiarante in caso di mendacio e, quindi, al fine di non incorrere in responsabilità, si renderà di fatto necessaria la consultazione di un consulente legale.

Non è, peraltro, da escludersi che venga richiesta l’esibizione di un parere pro veritate, che, tuttavia, avrà un costo che potrebbe anche risultare non proporzionato al valore dell’oggetto che si vorrebbe importare.

Ciò potrebbe determinarsi quale elemento fortemente ostativo rispetto all’importazione di talune tipologie di beni.


Inoltre, non è affatto detto che si possa conoscere con precisione il luogo di provenienza.

Mi viene in mente un caso di cui mi sono occupato tempo or sono che riguardava un cimelio archeologico di epoca romana imperiale, di cui si è riusciti a ricostruire lo scavo di provenienza solo a seguito di complicate analisi fisiche, chimiche e mineralogiche, sulla base delle cui risultanze l’oggetto è stato ricondotto ad uno specifico sito archeologico in Turchia.

Null’altro avrebbe potuto ricondurre l’oggetto in questione ad una provenienza turca e, tutt’oggi, nutro personali dubbi sul fatto che le analisi abbiano portato a risultati assolutamente inequivoci ed incontestabili, che rendono del tutto esclusa la provenienza da altri contesti e scavi di epoca coeva in altro contesto mediterraneo, dal momento che, temo, non sia neppure possibile un loro completo censimento (includendovi anche i siti di scavo clandestino, che non sono necessariamente noti).

Se si tiene conto che un oggetto di provenienza turca necessiterebbe della licenza, mentre uno di origine cipriota o greca no, si vede bene come la questione non sia poi così irrilevante.

Così, come si fa a distinguere se un’opera d’arte è stata creata a Ginevra in Svizzera o ad Annecy in Francia? Certamente, se vi sono documenti storici che, ad esempio, attestino la committenza o la destinazione originaria dell’opera ciò è possibile.

Ma, come noto, questi documenti storici possono non esistere affatto, oppure non essere conosciuti o perfino solo ignoti al proprietario.

A questa serie di problematiche, il legislatore europeo parrebbe avere pensato, dal momento che la norma prevede che quando il paese di provenienza non possa essere accertato in modo attendibile, oppure quando la rimozione dal suo territorio sia antecedente al 24/4/1972 (anno di entrata in vigore della Convenzione UNESCO), alla licenza di importazione possa sostituirsi da un documento attestante la legittima esportazione dall’ultimo paese in cui il bene si sia trovato stabilmente per almeno 5 anni.

Tuttavia, in questo caso, pare del tutto incomprensibile quale sia il grado di diligenza richiesto prima di poter attestare che il paese di provenienza non sia facilmente accertabile: occorrerà fare tutte le indagini possibili, come nel caso del manufatto turco di cui ho narrato? Oppure basterà una mera attestazione da parte di un perito?

Ed ancora, come potrò dimostrare che l’esportazione dal paese di origine sia antecedente al 1972 se non esibendo un documento avente data certa anteriore e che, tuttavia, risalirebbe, ormai, ad oltre 50 anni fa? È evidente che la probabilità di possedere e/o rinvenire tale documento sarà, per lo più, alquanto labile, in forma inversamente proporzionale rispetto al tempo decorso ed al numero dei passaggi di mano del bene.

Ciò a tacer delle conseguenze che potrebbero ricadere sul richiedente e perfino sulla sorte del bene, laddove le dichiarazioni rese dovessero risultare inesatte.


Il regolamento prevede che la licenza possa essere negata, oltrechè per insufficiente dimostrazione della legittima uscita dallo Stato di origine, anche laddove vi siano informazioni o “ragionevoli motivazioni per credere che il titolare dei beni non li abbia acquisiti legalmente”.

Trovo questa motivazione di rigetto alquanto singolare, dal momento che il regolamento stesso evidenzia come il rilascio della licenza non possa costituire prova della legittima provenienza del bene o di chi possa vantare legittimamente diritti su di esso.

Tale chiarimento è corretto, dal momento che il concetto di acquisizione legale può apparire molto semplice, ad una prima analisi, ma è tutt’altro che tale, se lo si guarda bene, specie se l’intendimento è quello di contrastare fenomeni di finanziamento di stati “canaglia” o di riciclaggio di denaro compiuti proprio da autorità di tali stati, le cui norme sicuramente tenderanno a coprire con un velo di legalità comportamenti che in altre circostanze di luogo e di tempo non sarebbero ritenute tali.

Ma anche senza voler ipotizzare casistiche estreme, si deve pensare che le modalità di acquisto del diritto di proprietà non sono universali neppure tra nazioni accomunate dal medesimo sostrato culturale.

Ad esempio, sulla base del diritto italiano si riconosce tutela al terzo che acquisti in buona fede da chi non sia effettivo proprietario del bene (art. 1153 cc); tale istituto è per lo più sconosciuto nel mondo anglosassone, ove, tendenzialmente, opera il diverso principio di origine romana, secondo cui nessuno può trasferire a terzi un diritto che non possiede (nemo plus iuris transfere potest quam ipse habet)

Dunque, attribuire all’autorità doganale europea il potere di sindacare la legalità dell’acquisto rischia di creare una norma priva di concretezza, se non portando ad una estensione sul piano universale del concetto di legalità presente nel nostro ordinamento (rectius, nell’ordinamento dello stato comunitario che dovrà gestire la pratica di rilascio della licenza), con effetti che, tuttavia, potrebbero risultare abnormi, rendendo in tal modo difficile garantire al mercato dell’arte la certezza del diritto con uniforme applicazione a livello mondiale.


Altro motivo di diniego è la conoscenza di “richieste di restituzione pendenti dei beni culturali da parte delle autorità del paese in cui tali beni sono stati creati o scoperti”.

Ciò per evitare che il territorio dell’Unione Europea possa diventare luogo di “rifugio” per beni di provenienza incerta già soggetti a procedure di restituzione sulla base delle vigenti norme internazionali.


Allo scopo di evitare la migrazione delle richieste di rilascio della licenza da uno stato unionale all’altro, la norma prevede che il richiedente debba dare notizia di precedenti dinieghi ogni volta che dovesse ripresentare la domanda di rilascio della licenza per un medesimo bene.


La dichiarazione dell’importatore (art. 5)


Per tutte le altre categorie di beni culturali (meglio individuate dalla tabella C), il regolamento prevede l’obbligo per l’importatore di fornire una dichiarazione, firmata dal titolare dei beni, in cui si afferma che l’esportazione dal paese in cui sono stati creati o scoperti è avvenuta in conformità con le disposizioni normative ivi vigenti al momento in cui è stata eseguita.


La dichiarazione dovrà essere redatta su un formulario unificato che descriva dettagliatamente il bene importato.


Anche in questo caso, come già previsto per la licenza di importazione, si potrà provvedere alla dichiarazione che l’esportazione sia avvenuta in conformità alle norme dell’ultimo Stato in cui il bene si sia trovato in modo stabile per almeno 5 anni laddove non sia determinabile in modo attendibile il paese di origine del bene oppure l’esportazione da esso sia avvenuta comunque prima del 24/4/1972, con tutte le conseguenti problematiche che ho già avuto modo di delineare.


Il regolamento lascia, poi, ad ogni singolo Stato dell’Unione il compito di determinare, entro il 28/5/2025, le sanzioni in caso di dichiarazioni false o comunque di violazioni delle disposizioni in materia, sancendo il solo obbligo della loro effettività, proporzionalità e dissuasività.

Questi tre principi corrono il serio rischio di apparire vuoti, in quanto vengono calibrati da ciascuno stato membro sulla base della propria politica rispetto la mercato dell’arte.

Ad oggi non ho notizia di sanzioni adottate dai singoli stati europei, ma è molto probabile che gli stati che aspirano ad una maggiore deregolamentazione del mercato dell’arte porranno sanzioni meno severe, con l’effetto di rendere più appetibile l’ingresso dei beni culturali attraverso i propri confini, replicando quel fenomeno di turismo e concorrenza tra Stati membri che già si avverte con una certa evidenza in materia fiscale, dove le aliquote doganali di ingresso per le opere d’arte variano anche sostanzialmente da uno Stato unionale all’altro.


Di primo acchito, si potrebbe pensare che questa normativa rappresenti una tutela ulteriore per il mercato, in quanto chi acquisterà un bene dotato di licenza o di dichiarazione avrà una maggior garanzia di lecita provenienza.

In realtà, come già accennato, lo stesso regolamento chiarisce come il rilascio della licenza non possa considerarsi una attestazione in tal senso (si immagini, quindi, la mera dichiarazione dell’importatore).

Tale norma lascia, quindi, intendere come non solo l’acquirente non sarà al riparo da eventuali problematiche legate all’illegittima esportazione dal paese di provenienza, ma che tale documento potrà essere messo comunque in discussione, anche sulla base della normativa interna di ciascun paese dell’Unione.


In effetti, il regolamento lascia del tutto aperto il problema di cosa succede se, una volta ottenuta la licenza o rilasciata la dichiarazione dell’importatore, si scopre che la documentazione prodotta non è esaustiva e che, invece, ne è emersa altra dal contenuto in tutto o in parte difforme.

Detto in altri termini, la licenza è annullabile? E se lo è, in che termini e con quali effetti sulle transazioni che, nel frattempo, il mercato dell’arte ha prodotto?

Sul punto tutto tace; ma è evidente che a fronte del silenzio del legislatore il mercato si muoverà con maggiore cautela: un bene di provenienza extra UE risulterà meno appetibile, perché gli acquirenti saranno meno propensi a rischiare un acquisto soggetto ad essere dichiarato non legittimo dal punto di vista della sua presenza nella zona doganale UE o, peggio ancora, soggetto a restituzione verso il paese esportatore (cosa che fino ad oggi potrebbe avvenire solo a fronte di una espressa richiesta di restituzione, ai sensi delle vigenti convenzioni UNIDROIT ed UNESCO).

Peraltro, un bene la cui licenza fosse annullata potrebbe, presumibilmente, avere seri problemi ad ottenere il rilascio di un permesso di esportazione, sempre che non debba essere per ciò solo ipotizzata una ipotesi di sequestro da parte della Magistratura.

Di conseguenza, il mercato europeo continentale potrebbe risultare meno interessante per gli operatori internazionali,


Volendo, quindi, tirare le somme di questi pochi pensieri espressi in libertà, il 29 giugno 2025 segnerà la fine del mercato europeo dell’arte? Probabilmente no, ma è certo che questa foga del legislatore europeo verso una burocratizzazione crescente non farà bene al settore, a tutto vantaggio di altri mercati, quale quello inglese, che potrebbero in tal modo riconquistare le posizioni perse a seguito della BREXIT.


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